Pictor Imaginarius

Icona

Il Pordenone, Tecnica mista su carta, cm 21×30, 2019

PICTOR IMAGINARIUS
Il Pordenone di Alberto Magri

 

In che categoria collocare questi disegni?
In quale dimensione, fra le molte e incerte che separano – o collegano, secondo i punti di vista – pittura e illustrazione?
Farebbe propendere per quest’ultima il fatto che alcuni di essi siano apparsi inizialmente sulle pagine di un libro – La casa del Pordenone, 2019 -, ma privi di uno specifico legame con un testo, come del resto era accaduto per le caliginose visioni di Menocchio (2016) e per Quella giungla del mio giardino (2018), esperimento pittorico incredibilmente prossimo al Pianeta azzurro di Franco Piavoli: un’elegia cinematografica sulla natura girata interamente nell’hortus di casa.

Ora, a sparigliare ulteriormente le carte contribuisce la scelta di ricavare da quei disegni una cartella di multipli, affidandone la riproduzione fotografica a un artistico manipolatore della luce  quale Stefano Ciol. E, non bastasse, a complicare la situazione contribuisce anche un’altra “ambiguità” di fondo: l’autore vive professionalmente il ruolo di restauratore, ovvero una condizione di privilegiata prossimità alla grande pittura, ma al tempo stesso di dovuta soggezione stilistica al modello su cui interviene.
Dunque, nel momento in cui Alberto Magri dedica il suo tratto alla figura di un grande maestro del Rinascimento come il Pordenone, frequentato in lunghe giornate di consolidamenti, puliture e integrazioni, ci si potrebbe attendere un minimo intorbidirsi della sua originalità creativa.

Invece il pictor parietarius – come avrebbero definito nell’antichità chi si accostava all’intonaco da affrescare obbedendo a schemi ideati dal capo bottega – si avvicina al soggetto senza la minima indecisione. E le immagini si costruiscono in un affascinante saettare di linee, mediante trasparenti evocazioni dei volumi, in un continuo variare di tecniche.

 

Mordente, inchiostri, acquarello…

Sono tutti primi piani, mezze figure o piani americani, come si direbbe ragionando su pellicole di celluloide, più che di pigmento – e, almeno nella controluce in cui la sagoma del pittore si staglia contro una trifora, un modo di procedere fotografico nell’inquadratura risulta percepibile -.
Eppure, nonostante venga ritratto così da vicino, il protagonista non mostra mai di sentirsi osservato.
Pare di vederlo in bottega o nel contesto del cantiere; nella quotidianità delle sue occupazioni, ma in momenti sospesi, privi del brusio di fondo di una realtà che scorre.

 

Carboncino, terre, gessetti…

Pordenone è seduto a disegnare, nella posa del Cristo di un’Ultima cena.
È descritto nell’ultimo istante di esitazione, prima che il pennello tracci la linea o stenda la campitura da cui l’affresco innescherà le proprie meccaniche espressive.
Viene colto in momenti di arretramento pensoso, di riflessiva pausa nell’esecuzione di un’opera: con il polso appoggiato a un angolo di stanza, quando c’è il tempo per un sospiro, o con lo sguardo che spazia verso l’alto della tela o della parete.
Il pictor imaginarius, l’ideatore di mondi dipinti, si conquista la scena.

Perché abbiamo la sensazione di non essere visti? Per quale motivo la nostra consistenza di spettatori si sfalda come il paesaggio della città, in cui la barca cullata dal Noncello e le mura – all’altezza della porta furlana – si fondono in un solo terroso vapore?

Perché l’attenzione del personaggio è determinata, assoluta, e si dedica senza mezze misure alla giornata appena stesa, alla figura cui dare rilievo, alla composizione da bilanciare.
La creazione grafica di Magri sembra essa stessa nutrirsi dell’energia dell’artista; diviene intensità magnetica di sguardo quella che Alberto ha conosciuto come tensione espressiva, indagando gli intonaci su cui la calce ha fissato le invenzioni del Pordenone.
Un mondo a cui accostarsi in punta di polpastrelli, come fa l’angelo disegnato al cospetto di una insondabile profondità stellata, capace di sfiorarla con uno stupore incantato che il suo volto non dice, ma che leggiamo in un fremito d’ali.

E alla fine, gli ultimi occhi a fissarsi nei nostri sono quelli di un Bimbo accoccolato. L’aureola parla del figlio di Dio, ma le sue carni pastose sono quelle che a ogni genitore suscitano un sorriso; quelle che a un artista promettono di sostenere il peso di un’emozione, senza badare alla categoria in cui la sua opera verrà incasellata.

Fulvio Dell’Agnese

This is a unique website which will require a more modern browser to work!

Please upgrade today!