
Alberto Magri nel suo studio. Foto Stefano Ciol.
Alberto Magri
Alberto Magri nasce nel 1987 a Pordenone.
Già nelle fotografie degli anni Novanta si scorge nei suoi occhi il medesimo, vivace scintillio di quelli paterni (il padre, Giancarlo, è noto pittore e restauratore).
E che non si tratti di semplice somiglianza fisica viene ben presto dimostrato dai primi disegni: anche per Alberto, la pittura è la forma di espressione più spontanea.
Fin da piccolo, poi, in lui pare essere scattato qualcosa di analogo a quanto dovette provare Bruce Chatwin davanti a un lembo di «pelle di brontosauro» custodito nella vetrinetta di sua nonna, giunto fin lì dal Sudamerica grazie a un cugino marinaio[1]. Conseguenza: Bruce finì a misurare con lo sguardo e la penna da grande scrittore le aspre terre di Patagonia, da dove il reperto proveniva; Alberto ha cominciato all’età dell’asilo un loop nel mondo dei dinosauri che ancora non accenna a placare il suo vortice.
Alle creature del Cretaceo il giovanissimo Magri si avvicina ad occhi spalancati, costringendo il padre artista a visitare musei di paleontologia e, a 10 anni, già appronta un modello di tirannosauro collocandolo all’interno del suo giardino, nel frattempo sondato alla ricerca di interrati segnali delle ere trascorse. D’altronde, per lui l’ettaro di verde intorno a casa è un microcosmo di estremo interesse anche al di fuori della prospettiva preistorica: lucertole, passerotti e civette sono indagati dal suo sguardo come la vitale manifestazione di un ecosistema del quale si sente parte.
E qualcosa di questo atteggiamento (da cui è destinato a nascere nel 2018 il libro Quella giungla del mio giardino) avrà ripercussioni anche nel suo essere parte attiva del laboratorio di restauro di famiglia, con il padre e il fratello Giovanni; perché davanti agli intonaci affrescati da Pordenone o Amalteo, Alberto non può che sentirsi elemento di una stratificazione storica, che è anche sedimentazione di passioni umane.
E allora, con il sommo artista del Cinquecento o con il mugnaio eretico Menocchio, il dialogo diventa quasi inevitabilmente questione di disegno e colore, in opere che, pur destinate ad organizzarsi nei limiti di una pagina, trascendono i confini dell’illustrazione.
Oggi, le tavole di Magri dedicate al mondo dei dinosauri si propongono con l’analoga capacità di farci sentire dentro quella dimensione. Ma non con una tecnica da ricostruzione virtuale; qui si punta piuttosto sulla trasmissione all’osservatore di una percezione visionaria, in equilibrio con il dato scientifico, ma che a esso palesemente non si riduce.
Dal 2010 Alberto Magri ha operato al restauro di numerose opere di varie epoche di grandi Maestri dell’arte, tra cui la Casa – Studiolo del Pordenone, il ciclo d’affreschi di Scuola giottesca dell’Abbazia di Santa Maria in Sylvis di Sesto al Reghena e il ciclo affrescato da Pomponio Amalteo nella chiesa di Santa Maria Assunta a Lestans (PN).
Sue pubblicazioni: Pictor Modernus (2010), Menocchio (2015), Quella giungla del mio giardino (2018) e La Casa del Pordenone (2019).
Fulvio Dell’Agnese
[1] Cfr. B. Chatwin, In Patagonia, Milano, Adelphi, 1990 [1977], pp.9-11.
Testo tratto dal volume: Tethyshadros – Studi e visioni artistiche sul Tempo Profondo, Alberto Magri, Editrice Al Segno,2021.
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«Il pettirosso è un uccello migratore stagionale.
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